Trotsky: La rivoluzione politica si fa senza settarismo

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Impegnarsi per la rivoluzione del sistema politico, da liberista a comunista, non vuol dire essere settari.

Lo spiegò chiaramente Leon Trotsky [1].

« Il programma non viene formulato per una redazione, una sala di lettura o un club di discussione, ma per l’azione rivoluzionaria di milioni di uomini », scrisse.

Aggiunse inoltre che un’organizzazione del proletariato deve anche « lottare per rivendicazioni parziali e transitorie, cioè per gli interessi e i bisogni elementari delle masse quali sono oggi ».

In buona sostanza, « prepararsi alla rivoluzione [non] significa unicamente convincere se stessi dei vantaggi del socialismo ».

In tal caso si finirebbe nell’essere solamente dei « settari ».

Trotsky quindi fece una descrizione antropologica del “settario”: « la maggioranza dei gruppi e delle cricche settarie (…) conducono un’esistenza organizzativa “indipendente” con grandi pretese, ma senza la benché minima possibilità di successo ».

« I settari – spiegò Trotsky – non sanno vedere che due colori: il bianco e il nero ».

Trotsky: i settari non agiscono, si lagnano o commentano

« Sono incapaci di trovare accesso alle masse e per questo non esitano ad accusare le masse di essere incapaci di elevarsi sino alle idee rivoluzionarie. Rimangono indifferenti alla lotta interna nelle organizzazioni riformiste – come se potessero conquistare le masse senza intervenire in questa lotta! ».

Proseguì così poi l’analisi di Trotsky: « i settari vivono in un permanente stato di irritazione, lagnandosi di continuo del “sistema” e dei suoi “metodi” ».

« Gli avvenimenti politici sono per loro l’occasione per fare dei commenti, non per agire. Segnano il passo, si accontentano di ripetere le stesse vuote astrazioni ».

Con loro, concludeva Trotsky, non vale la pena di « perdere tempo ». I settari, insomma, vanno lasciati « al loro destino ».

Fonti e note:

[1] Marxists, Leo Trotsky, “L’agonia del capitalismo e i compiti della IV Internazionale – Programma di transizione” (1938).

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