Kropotkin: in luogo delle carceri, una rivoluzione sociale

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« È tempo di chiedersi se la condanna a morte o al carcere sia giusta; se essa riesca a soddisfare il suo duplice mandato, ossia prevenire il ripetersi del comportamento antisociale e (per quanto riguarda le prigioni) rieducare il criminale ».

La questione che si poneva Pietr Kropotkin già nel 1877 [1], è tornata negli ultimi anni al centro del dibattito teorico.

L’analisi, attenta e dettagliata, di Kropotkin parte da una certezza: « la prigione non migliora il detenuto », in sostanza

  • né svolge la funzione rieducativa,
  • né svolge la funzione preventiva.

Pietr Kropotkin: quando si va in prigione, vi si ritorna

« Quando si va in prigione, vi si ritorna. È inevitabile e le statistiche lo dimostrano », spiegava l’anarchico russo. Che aggiungeva: « un altro elemento significativo è costituito dal fatto che il reato per il quale si ritorna in prigione è sempre più grave del primo ».

Insomma, il carcere è solo … un’università del crimine.

« La crudeltà dei giudici può aumentare o diminuire, la crudeltà del sistema penale gesuitico può cambiare, ma il numero di comportamenti definiti criminali rimane costante. Indipendentemente dai cambiamenti introdotti nel regime penitenziario, il problema dei recidivi non si riduce », insisteva.

Uno dei motivi delle recidive, secondo Kropotkin, è semplice: « la maggior parte dei detenuti sono persone sprovviste della forza necessaria a resistere alle tentazioni che li circondano o a contenere le passioni dalle quali si fanno dominare. Il detenuto, in genere, non ha mai l’opportunità di scegliere ».

In sostanza, sosteneva inoltre l’autore, « non si può non concludere che le carceri sono costruite per i più sprovveduti, non per i criminali ».

A riconferma di ciò, Kropotkin spiegava come in carcere ci vadano i pesci piccoli, non certo i pesci grossi.

« Quali incredibili truffe vengano perpetrate nel regno dell’alta finanza e del commercio di alto livello? », domandava. E quanti di costoro eludono ed evitano il carcere, viene da rispondere.

Pietr Kropotkin: il crimine non è altro che una “malattia sociale”

Ancora, aggiungeva lo scrittore russo, è « la società nel suo insieme ad essere responsabile di ogni comportamento antisociale. Siamo noi a fare di loro ciò che sono ».

« L’uomo è il prodotto dell’ambiente in cui vive e trascorre il suo tempo », in sostanza.

Interessante il parallelo che illustra Kropotkin nella sua opera sulle prigioni: « piuttosto che guarire le malattie, la medicina attuale tenta innanzitutto di prevenirle. La medicina migliore di tutte è l’igiene. Dovremo intraprendere la stessa strada anche per quel grande fenomeno sociale che continuiamo a chiamare “crimine”, ma che i nostri figli chiameranno “malattia sociale”. Prevenire questo disturbo sarà la cura migliore ».

Infatti, « la maggior parte degli individui che sono considerati criminali sono persone che soffrono di un disturbo, e che, di conseguenza, è necessario prendersi cura di loro nel miglior modo possibile invece che mandarli in una prigione dove il disturbo non farà altro che aggravarsi ».

Pietr Kropotkin: impossibile perfezionare la prigione, non resta altro che distruggerla

Certo, delle migliorie al sistema penitenziario si potrebbero pure fare per umanizzarle.

Per esempio assicurare un lavoro ai detenuti. « Tutti conoscono le nefaste conseguenze dell’ozio. Ma c’è lavoro e lavoro. Il detenuto lavora di malavoglia e solo per timore di una punizione più severa. Il lavoro, che, di per sé, non possiede alcuna attrattiva perché non stimola nessuna facoltà mentale del lavoratore, è retribuito così miseramente che il prigioniero lo vede come una punizione ».

Ancora – sostiene Kropotkin – « l’influsso migliore al quale un detenuto potrebbe essere esposto, l’unico in grado di donargli un raggio di luce, un po’ di piacere nella vita – il rapporto con i suoi cari – è sistematicamente impedito » [ oggi limitato sotto diversi punti di vista, di fatto impedito per i detenuti al 41 bis, NdR].

La condotta delle guardie gioca anch’essa un ruolo negativo nel processo di “rieducazione”: « quando le guardie sono condannate a trascorrere il resto della vita a eseguire un lavoro assurdo, ne patiscono le conseguenze. Diventano eccitabili. Non si può concedere un potere a un individuo senza corromperlo. Egli ne abuserà. È l’istituzione che li rende quello che sono: vili e meschini persecutori ».

Insufficienti i servizi per chi esce di prigione: « chi esce di prigione è solo in cerca di mano tesa di un amico sincero. Ma la società lo rifiuta, Egli è condannato ad essere recidivo ».

La conclusione di Pietr Kropotkin è pessimista, in proposito: « è impossibile perfezionare una prigione. Con l’eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è assolutamente altro da fare che distruggerla. Fino a che si priva l’uomo della libertà, non si riuscirà a renderlo migliore. Non si farà altro che coltivare criminali a vita. Essa non serve ai propri scopi. Degrada la società. Deve sparire. E’ un residuo di epoche barbare mescolato a filantropia gesuita ».

Pietr Kropotkin: crimine figlio di estrema povertà e estrema ricchezza, serve società di eguali

Come intervenire, allora, per prevenire il crimine?

Kropotkin parte da lontano: « Ogni anno migliaia di bambini crescono tra la lordura morale e materiale delle nostre grandi città, in mezzo a una popolazione demoralizzata dalla precarietà dell’esistenza. Quando vediamo la popolazione infantile delle grandi città vivere in questo modo, è sorprendente che solo una parte esigua di essa si trasformi in banditi e assassini ».

« E che cosa vede il bambino che cresce in strada all’altra estremità della scala sociale? Uno stupido e insensato lusso, negozi eleganti, scritte che esaltano la ricchezza, l’idolatria del danaro che incita a desiderare di essere sempre più ricchi, la smania di vivere a spese degli altri. Il lavoro manuale disprezzato a tal punto che la nostra classe dirigente preferisce dedicarsi agli esercizi ginnici piuttosto che maneggiare una vanga o una sega ».

Di conseguenza, quel che serve è « una società di uguali », di « uomini liberi », dove ognuno riceva una « sana istruzione », acquisisca « l’abitudine ad aiutare il prossimo », l’effettiva possibilità per ognuno di « lavorare seguendo le proprie inclinazioni ».

Si dovrà anche offrire « una nuova struttura familiare, basata sulla comunanza delle aspirazioni » che contrasti l’isolamento dell’individuo.

Per i criminali “irriducibili”, « gli unici rimedi pratici rimangono il trattamento fraterno, il sostegno morale [e] orientare le loro passioni in modo sano, fornire loro un altro sbocco espressivo ».

Insomma, conclude Kropotkin, è necessaria una vera e propria « rivoluzione sociale ».

Fonti e Note:

[1] Pietr Kropotkin (1842 – 1921), “Prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri” (1877).

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